lunedì 19 febbraio 2018

"Sami blood": la difficile costruzione dell'identità

Sangue sami: il titolo pare rivendicare un'identità tramandata per via biologica, genetica, una concezione essenzialistica dell'identità culturale, da cui il sami e la sami non possono fuggire, a cui sono destinati a ritornare pur dopo l'esplorazione di culture diverse. Una sorta di naturale, istintivo "richiamo della foresta". Ma la lettura proposta dalla regista Amanda Kernell nel suo lungometraggio di esordio va molto oltre questo stereotipo, e si richiama ad una concezione dialettica di identità. Racconta le stratificazioni e le lotte interiori del soggetto che costruisce il proprio io, all'interno e contro la cultura del proprio gruppo, e allo stesso tempo la definizione dialettica (per tramite del contrasto noi/gli altri) del gruppo stesso, quello del popolo sami.
I sami o lapponi, minoranza etnica della Svezia e di altri Paesi scandinavi, possiedono una propria cultura tradizionale ben definita ed una lingua propria. Ancora all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, quella sami era una popolazione nomade che fondava la propria economia sull'allevamento delle renne. In questo contesto è ambientata la storia narrata da Kernell: i bambini e i ragazzini sami, pur indossando gli abiti tradizionali e ritirandosi a sera a dormire nelle tende mobili sui pascoli montuosi, devono frequentare le lezioni di una maestra svedese e sforzarsi di parlare in classe esclusivamente svedese, pena un castigo corporale. Elle-Marja, adolescente sami di spiccata intelligenza e con una personalità ancora in fase di difficile costruzione, è la più brava ad adattarsi alla lingua e alla cultura degli Altri, è la sola a guardare con desiderio all'alterità svedese, che impone dall'alto un modello omologante alla minoranza sami, che è costretta ad adattarvisi, seppur con molti attriti e resistenze. La sorella minore di Elle-Marja, rappresentante di tali resistenze e fiera portatrice della cultura tradizionale, parla lo svedese stentatamente e con fastidio, preferendo di molto cantare il joik, il canto rituale sami.
La maestra svedese guarda con una dolcezza inevitabilmente paternalistica a Elle-Marja e le regala un libro di poesie che contiene il suo verso preferito: «Anelo la terra che non esiste, e tuttavia sono stanco di desiderare». È un verso che si addice alla ricerca sempre frustrata di Elle-Marja di una personalità in cui sentirsi a proprio agio, di un'identità adulta liberata dalle insicurezze dell'adolescenza, una storia e una forma di cui andare fiera.
Quando Elle-Marja cammina verso la scuola nel suo abito tradizionale, i ragazzi svedesi ridono alla sue spalle: perché i sami puzzano ed Elle-Marja puzza, e il suo vestito è ridicolo, e anche se i sami vivono in Svezia senz'altro non capiscono lo svedese e si può insultarli a piacimento. «Ecco gli animali del circo!» grida uno dei ragazzi nel veder arrivare la fila di bambini sami diretti alla lezione.
La sua appartenenza al popolo sami non genera altro che vergogna e senso di rifiuto in Elle-Marja. Il suo ruolo nei confronti della maestra svedese che annuncia l'arrivo di ospiti da Uppsala si può definire collaborazionista. Lei è la più docile, la più desiderosa di addomesticamento alla cultura dominante: quindi per prima, per dare il buon esempio, viene gettata in pasto agli ospiti svedesi che si rivelano degli studiosi senza scrupoli. La costringono a spogliarsi davanti al resto della classe e alla finestra aperta e la sottopongono gelidamente a esami medici e a misurazioni antropometriche, in un'agghiacciante sequenza che richiama alla mente sia il distacco dei medici nazisti nei confronti dei "subumani" ebrei o zingari, sia l'atteggiamento lombrosiano che ricercava nelle misure del cranio e nella distanzia tra gli occhi la dimostrazione scientifica dell'inferiorità naturale dei meridionali. Di tutta la sequenza mi ha irritato in particolare un gesto inaccettabile sotto la sua facciata di innocenza: la carezza di una delle studiose ai capelli biondi di una bimba sami, e la sua parola compiaciuta per quella tonalità di biondo. Un carezzare compiaciuto che pare rivolto a un gatto o a un cavallo, che non si chiede se alla bimba piaccia che un'estranea le tocchi le trecce, e che sotto la veste di un bonario paternalismo nasconde la stessa violenza che le cronache dell'epoca ci tramandano dei seppur "buoni" e "gentili" missionari europei, colonizzatori dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina.



Di quest'ultima, smisurata umiliazione, dell'essere stata trattata come una bestia da studiare, Elle-Marja non accusa gli svedesi ma la propria appartenenza al gruppo giudicato inferiore. Introietta le accuse, la discriminazione, gli insulti contro i sami ed ella stessa si rivolta contro la propria storia, la propria identità, e si decide definitivamente a rigettarla, a costruirne una completamente nuova. Chiede alla maestra di aiutarla a trasferirsi in città, ma il marchio infame si alza come un muro tra Elle-Marja e il suo sogno: essere prima della classe tra i sami non è sufficiente a seguire le normali lezioni per i ragazzi svedesi. Troppa è l'inferiorità dei sami perché uno di essi possa estirparla da sé.
Qui inizia l'avventura solitaria di Elle-Marja e contemporaneamente si dà il passaggio dall'adolescenza all'età adulta: ruba un vestito occidentale, si lava in una polla d'acqua per togliersi di dosso la puzza sami e con queste nuove vesti riesce facilmente a vivere la sua prima avventura romantica e poi a fuggire in città, da sola e vestendo una nuova identità: Elle-Marja è rimasta indietro e adesso c'è solo Christina nata nello Småland (particolari anagrafici rubati alla sua maestra) e vestita di abiti altrui.
La chiave della costruzione del nuovo io, come nelle lezioni in lingua svedese (e come nei processi dell'egemonia culturale nei contesti coloniali), sta nell'istruzione: Elle-Marja/Christina si rivolge ad una scuola di Uppsala perché la educhi come una ragazza svedese, perché la trasformi agli occhi di tutti in Christina solamente, e il passato sami sia cancellato dalla storia. Ma per frequentare una scuola e vivere in città occorre denaro. Per procurarselo Elle-Marja è disposta a tutto, perfino a tornare temporaneamente nella casa rifiutata, dove c'è da commettere un delitto, un parricidio freudiano: il sacrificio di una renna, che è allo stesso tempo un ricatto contro la madre e l'assassinio figurato della cultura sami.
"Sami blood" è un film raffinato, un difficile gioco di equilibrismo tra la tradizione e la globalizzazione, tra il rischio della chiusura soffocante in se stessi e quello speculare della dispersione in un modello culturale omologato e privo di storia. È la narrazione di una costruzione soggettiva tra l'infanzia e l'età adulta, tra la casa e il mondo esterno, segnata da riti iniziatici e ritorni simbolici, che dura fino alla vecchiaia della protagonista, perché la soggettività umana non è un'essenza ma un processo, e non finisce mai il lavoro di ricerca di una sintesi che sappia sussumere in sé tutte le fasi e tutte le stratificazioni della storia personale e sociale. 

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