sabato 7 gennaio 2017

Se questo è lavoro




Quest'anno mi ritrovo seduta qui davanti al mio pc sottoproletario a pensare. E ciò che penso riguarda inevitabilmente il mio futuro, così incerto da farmi star male. Per l'anno che verrà ho pochi buoni propositi che, purtroppo, non dipendono da me. Questa volta l'impegno e la dedizione non bastano. Forse "bastavano" all'università, quando si amalgamavano perfettamente alla passione per ciò che stavo studiando. Oggi non basta più neanche la passione come collante. Domattina vorrei svegliarmi con la consapevolezza di poter contare su qualcosa che non sia né la paura di non poter pagare l'affitto né i forse del mio contratto a tempo determinato vecchio di circa due anni. Due anni in cui ho messo da parte una grande fetta della mia vita per lavorare il più possibile, cercando di dimostrare competenza e professionalità. Penso che questi due anni siano stati sufficienti per fare presente di essere capace di entrambe. Ma non è tutto. Tentavo di dimostrare di meritare un contratto degno di questo nome. Tentavo in tutti i modi di smascherare, con il mio operato, il circolo vizioso di un momento storico in cui si elimina l'articolo 18 e poi si presenta un nuovo piano di riorganizzazione del lavoro. Jobs act. Azione sul lavoro. «Mi hanno gentilmente spiegato che da quando lo Statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato significa soltanto che è l'azienda a decidere quando il contratto termina», ma in fondo chi ci arriva all'indeterminato? Di certo non io, troppo ambiziosa e ottusa per poter anche lontanamente immaginare che questo gioco di parti durerà non più di trentasei mesi. Ce l'hanno fatta! I capitalisti ce l'hanno fatta: hanno permesso che si vivesse per il lavoro. Viviamo per lavorare perché la nostra capacità contrattuale non ci rende portatori di diritti, benché il nostro lavoro sia di qualità perché misurato dal merito.

Mi sono documentata. In questa società flessibile, così come è stata definita dal professore Luciano Gallino, il merito non è il fine, ma il mezzo. Se sei meritevole hai tuttalpiù diritto ad un rinnovo del contratto, ma la condizione è quella di continuare ad essere meritevole. No signori, il merito non è quello che voi pensate. In questa società della rovescia il merito è la resistenza al lavoro e la sottomissione al padrone. Sostenendo che «accrescere il numero dei lavori flessibili rientrerebbe [...] negli interessi generali della collettività», i membri di questa società non fanno altro che obliare l'effettivo stato delle cose e, in particolar modo, che «ci sono tante persone, giovani e meno giovani, che alla lunga vivono i contratti a termine, le collaborazioni dette continuative ma di fatto discontinue, il lavoro intermittente, a chiamata, on the road o semplicemente occasionale, oppure in nero, come una ferita esistenziale, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati». Un lavoratore flessibile può arrivare a posporre «...l'opportunità di sottoporsi a una visita medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il contratto che sta per scadere».

Non solo! Il lavoro flessibile ha come diretta conseguenza quella di creare concorrenza tra i lavoratori aventi diritti e salari minimi e lavoratori aventi diritti e salari elevati. Dalla nascita di questa contrapposizione (di per sé assurda) al "tu sei l'ultimo arrivato, quindi io posso e tu no" il passo purtroppo è breve. Va ad annientarsi la solidarietà proletaria tra operai e, anzi, gli operai "senior" vanno a delinearsi come sottopadroni: i diritti di cui godono non sono più diritti, ma vengono vissuti e presentati all'esterno come i privilegi di una casta. Si ribalta inevitabilmente anche il concetto di dovere: il dovere non è più associato ad un diritto, ma diventa il pegno di una condizione, la precarietà. È la crisi dei sindacati. Non a caso, scrive Gallino, l'avvento della società flessibile va di pari passo con la decadenza dell'elemento aggregante della società stessa: mentre Chiesa e sindacati perdono di valore, il tempo della vita si dimezza progressivamente. Il tempo del lavoratore flessibile è quello del lavoro. Non si tratta solo delle ore lavorative, ma dello stress del post-lavoro. Le mura domestiche diventano il nido dei problemi: la mancanza di stabilità, di tempo, di progettualità; il sentirsi messi al muro, senza via di scampo. Dal 2012 la cara Fornero ha abolito l'articolo 18, che «attribuiva al lavoratore un diritto sacrosanto: se veniva licenziato senza giusta causa, il giudice doveva reintegrarlo nel posto di lavoro». Eppure io ci spero ancora nell'articolo 18, nell'indeterminato, nel merito come fine e non come mezzo. La nostra generazione si ritrova a dover lottare per ottenere diritti che in passato i nostri genitori hanno già ottenuto. Mi direte, forse, che erano altri tempi, che il sindacato giocava un ruolo fondamentale nell'operare fianco a fianco con il lavoratore, che era diversa la mentalità aziendale, che era diversa la mentalità dei giovani. La ferita esistenziale del lavoro sta mutando la visione del lavoro stesso: non lavorare per vivere, ma vivere per lavorare.

Per il nuovo anno ho ancora pochi piccoli propositi che non dipendono da me, ma voglio credere ancora alla mia Italia.





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