venerdì 8 gennaio 2016

"L'uomo che allevava i gatti" di Mo Yan

Mo Yan è di quegli autori rari che si incontrano per caso e si portano con sé per il resto della vita. Ho iniziato l'anno nuovo leggendo una sua raccolta di racconti edita da Einaudi, "L'uomo che allevava i gatti". Era ora di conoscere da vicino questo scrittore cinese che battezza i suoi libri con titoli immaginifici e intriganti, che ha vinto il Premio Nobel nel 2012 circondato da polemiche e commenti superficiali sul suo rapporto col governo cinese, che da decenni è affermato in Cina quanto sconosciuto in Italia e solo negli ultimi anni ha avuto il giusto riconoscimento.
Nato a metà degli anni Cinquanta in una famiglia contadina, Mo Yan ha conosciuto più di una Cina: quella delle zone rurali, dei villaggi isolati in mezzo alle distese di sorgo, quella della Rivoluzione Culturale, quella delle Comuni Popolari, quella del "figlio unico". Nelle sue pagine c'è moltissimo e manca qualcosa: manca qualsiasi falsa coscienza celebrativa come qualsiasi falsa coscienza denigratoria. Dalle pagine di Mo Yan si alza in spire dense, quasi tangibili, un amore intenso per la Cina: senza alcuna traccia di propaganda, senza retorica, senza risentimenti da ex mogli inacidite. Sembra esserci nella narrativa firmata Mo Yan, insieme al gusto del narrare e alla finissima abilità nel farlo, una prova di quel compito che Edward Said affidava agli intellettuali: dire la verità. La persona vivente di Mo Yan si scioglie senza soluzione di continuità nei suoi personaggi (l'insegnante che torna al villaggio natale, il regista affermato figlio di contadini, l'uomo ormai di città che si reca in visita a parenti e amici di infanzia provando soggezione e quasi vergogna di mostrarsi nei jeans nuovi e moderni), che ci sono vicinissimi e quasi trasparenti. Attraverso la loro pelle vediamo, come una rete di capillari, una gamma nutrita e non banale di sensazioni umane: tra tutte, il conflitto interiore, «il tema eterno dell'amore» e la tendenza allo stesso tempo produttiva e autodistruttiva alla socialità. Sono bellissimi e davvero universali gli stralci di pensieri che i protagonisti indirizzano ai loro prossimi e all'umanità intera: sembra di sentire l'eco dei componimenti amari e disincantati de "Le mille e una notte", quando i protagonisti traditi dagli amici riconoscono il dovere e il piacere di amare gli altri, servirli, prodigarsi per loro e il ritorno, quasi sistematico, in termini di ingratitudine e disprezzo. Stare con gli altri è al tempo stesso un bisogno e un dovere, un tormento e un desiderio: solo superare questa dialettica tra solitudine e conflittualità può produrre una società civile "perfetta", caratterizzata dalla

solidarietà, virtù infinitamente preziosa perché l'unica capace di compensare le lacune di un sistema politico perfettibile (quando non del tutto ingiusto).
Le figure traslucide e solide dei protagonisti si stagliano su sfondi che sembrano ispirati allo stile del pittore tradizionale Wang Wei: gli sterminati paesaggi dominati quasi interamente dal rosso del sorgo e del sole al tramonto inghiottono le figure umane, che si riscoprono animate da passioni gigantesche eppure piccole quanto le formiche e altrettanto fragili. La ricchezza delle descrizioni satura le pagine, una singola immagine riesce a espandersi per decine e decine di righe in un viluppo singolare di parole trascinanti e dense. La scrittura di Mo Yan è vivida, immaginifica e capace di ingigantire come una lente d'ingrandimento disumana ogni dettaglio e gesto, ogni cosa che i personaggi abbiano visto o creduto di vedere.
Nei racconti di questa raccolta, Mo Yan racconta delle difficoltà che la Cina rivoluzionaria ha ereditato da secoli di isolamento e arretratezza economica e con cui ha dovuto misurarsi: le condizioni di vita quasi bestiali dei contadini delle aree rurali più isolate e arretrate, i rapporti familiari segnati dall'autorità spesso violenta del padre padrone, la difficoltà da parte delle autorità di gestire efficacemente aree segnate da penuria di beni materiali e chiusura mentale, l'arretratezza culturale e la scarsa istruzione dei ceti più miseri. Un occhio di riguardo viene riservato alle figure femminili, alle abili lavoratrici duramente sottomesse agli uomini di casa, alle neonate che vengono scartate nella speranza di futuri figli maschi, fino alla dolente protagonista del racconto "Il cane e l'altalena" cui, una volta privata della bellezza e resa orba da un incidente, non rimarrà che una vita di stenti e sacrifici accanto ad un uomo muto e rude. Anche alla tematica del contenimento delle nascite sono dedicate pagine intense e crude, che accostano le pratiche anticoncezionali e abortive ai numerosissimi infanticidi che venivano consumati nelle campagne secondo vari rituali, quando una gravidanza non desiderata andava a colpire una famiglia particolarmente misera e priva del minimo sostentamento. Al lettore non sono risparmiati i dettagli e gli aneddoti più duri, cruenti, violenti. L'atteggiamento del narratore non appare saputo né moraleggiante, ma pieno di stupore e voglia di mostrare le sue fantasmagorie, intrecciante fittamente alla realtà fino ad esserne indistinguibili. Su tutti gli altri elementi narrativi e descrittivi campeggia la natura, con la sua enorme varietà di animali e vegetali: alle descrizioni minuziose della campagna si accostano quelle degli animali da cortile, degli insetti, e gli odori e colori dei campi ci appaiono filtrati da uno sguardo allo stesso tempo distaccato e nostalgico. L'ambiente rurale, la vita semplice e dolorosa dei campi, la convivenza di uomini e animali ci richiama un po' alla mente Esenin, i suoi immancabili ritorni col pensiero alle origini contadine, un po' felicemente superate e un po' sempre, intimamente rimpiante, insieme ad un'infanzia ormai finita ma sempre vivida nella testimonianza di un Paese millenario e coraggioso.

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