martedì 15 dicembre 2015

I demonî, Dostoevskij

E c’era lì a pascolare pel monte un gran branco di porci; e lo scongiurarono a permetter loro di entrare in quelli. Ed egli permise. Allora i demoni, usciti da quell’uomo, entrarono nei porci e con grande impeto la mandria si precipitò nel lago e ivi affogò. Appena videro quanto era accaduto, i mandriani fuggirono a portare la notizia in città e per le campagne. E la gente uscì a vedere l’accaduto, e, venuti a Gesù, trovarono l’uomo, dal quale erano usciti i demoni, seduto ai piedi di Gesù, rivestito, in sé, e s’impaurirono. E quelli che avevano vista la cosa, raccontarono anche loro come l’ossesso era stato liberato.
VANGELO DI SAN LUCA, Cap. VIII, 32-37

La citazione che costituisce l’incipit del romanzo racchiude ermeticamente il senso dell’intera vicenda narrata da Dostoevskij, ispirata ai movimenti anarchici russi di metà Ottocento e, in particolare, all’anarchismo di Nečaev.
La vicenda si svolge in una provincia russa nella quale una “cinquina” di anarchici, capeggiata da Piotr Stepanovic Verchovenski si insinua, dapprima pacificamente, nella politica della comunità, accattivandosi il ceto dirigente, in particolare la moglie del governatore, Elizaveta Prokofevna, con un piano machiavellico scrupolosamente architettato: sabotare le iniziative politiche e sociali della classe dominante, insidiare i rapporti personali tra i membri del ceto dirigente, con l’intento di creare scompiglio, disorientamento. Fare abbassare la guardia ai custodi dell’ordine pubblico, in modo da creare situazioni di disordine violento e porre le condizioni per un abbattimento totale delle istituzioni del potere. Il tono del narratore segue un drammatico crescendo: la sedizione strisciante, nascosta, mascherata, rete che si avvinghia attorno ai protagonisti della vicenda, fino a stringerli in una morsa che non risparmierà nessuno, né le vittime, né i carnefici, distinzione che nella narrazione si fa sempre più sottile; e poi l’esplosione finale, l’incendio della provincia, culmine catartico di un piano che sembra non avere né autori né responsabili, in cui l’orrore e la violenza si distribuiscono ambiguamente tra i protagonisti della vicenda.
Tralascerò in questa sede l’esposizione più dettagliata delle vicende che intessono la trama del racconto, e mio malgrado, dovrò anche tralasciare una descrizione dettagliata della psicologia dei singoli personaggi, che pure meriterebbe una profonda riflessione. Ciò su cui intendo soffermarmi principalmente è il percorso dell’Idea, a mio avviso autentica protagonista del romanzo: dapprima parla con voce flebile alla coscienza umana, una voce talmente debole che richiede concentrazione e attenzione per poter essere udita, che va isolata da tutte le altri voci della coscienza. L’Idea si insinua gradualmente, dolce e inarrestabile, come un tarlo che comincia a scavare un tunnel profondo nei nostri pensieri, creando labirinti che conducono sempre allo stesso punto, all’Idea. Ogni concetto dalla mente elaborato, ogni dubbio, ogni domanda costituiscono per l’Idea il  nutrimento che le permette di crescere, una sorta di massa tumorale che occupa e divora tutta quanta la materia cerebrale. È il momento della possessione demoniaca: l’Idea vuole uscire da sé, diventare azione, realtà. E allora ci ordina di agire in suo nome: l’Idea guida tutte le nostre azioni, è fonte assoluta di legittimazione della nostra condotta morale. In nome dell’Idea si può ingannare, tradire, raggirare l’altro. Solo in nome dell’Idea si può uccidere. Il nesso istituito da Dostoevskij tra un’idea che agisce ossessivamente nel suo portatore e il delitto che il soggetto si ritiene legittimato a compiere, è un motivo ricorrente nella narrazione dell’autore: penso a Delitto e castigo, in cui il protagonista vive un tormento che lo affligge sia prima di uccidere la vecchia usuraia, sia dopo. Il protagonista teorizza che il delitto sia legittimo nel caso in cui si voglia combattere un’ingiustizia, e in nome di questa idea che si impossessa di lui in maniera sempre più prepotente, egli uccide, salvo poi espiare con la malattia, con la sofferenza inconsolabile la sua colpa. Fino alla catarsi, quando “alla dialettica si sostituisce l’amore”. Penso ai Fratelli Karamazov: Ivan Karamazov teorizza che “se Dio non esiste, tutto è concesso”. L’Idea che diventa realtà morale e intellettuale in Ivan, diventa realtà fisica in Smerdiakov, che ammazzerà il loro spregevole padre. Questa dimensione del “demoniaco” è una costante nei romanzi di Dostoevskij, ed è forse il punto focale in cui convergono le varie prospettive dalle quali l’autore guarda alla natura umana. Ma la particolarità de I demonî sta nella natura collettiva dell’ossessione: dal singolo, la possessione demoniaca si trasferisce ai “porci”, coinvolge una collettività.

Se non ho ancora precisato di quale idea si tratti non è per dimenticanza, ma  perché ritengo che la natura dell’idea non sia fondamentale nella descrizione di un’ossessione o di una possessione demoniaca. Si è ossessionati, si è “posseduti” nel momento in cui un’unica e sola idea diventa l’unica fonte del nostro agire, permea in tutti i molteplici e contraddittori aspetti della nostra psiche, abbatte ogni luogo di resistenza. Anche un’idea come quella di Ivan Karamazov, che sembra rimandare ad un relativismo che molti definirebbero spregevole e moralmente deprecabile, è un’idea che ha tutti i caratteri dell’assolutezza: Ivan uccide idealmente suo padre non perché è un relativista, ma proprio in nome dell’assolutezza imperativa della sua idea. È come se Dostoevskij ci dicesse che il mondo delle idee non è in alcun modo conciliabile con la storia e, nel momento in cui si cerca di far diventare realtà quell’Idea, l’individuo (o la collettività) si ritrova stretto in una morsa, in una contraddizione che è impossibile sanare: se si vuole realizzare un’idea nella sua purezza, così come essa è nella nostra mente, si dovrà ammazzare, annientare quella realtà a cui l’idea dovrebbe dar forma. L’idea sarà sempre in qualche modo tradita: nel momento in cui diventa “fatto”, l’idea perde la sua assolutezza, la sua purezza e perfezione, per divenire qualcosa di misero e aberrante. E il portatore dell’idea, che vede tutto ciò in cui ha creduto sporcato e umiliato, non può far altro che pentirsi ed espiare la sua colpa. Colui che invece vuole salvare la purezza dell’Idea ha un solo modo per metterla in pratica: il suicidio.
L’idea demoniaca dei maiali del romanzo è la Rivoluzione. Il rovesciamento totale e sistematico delle istituzioni del potere, l’abbattimento della differenza di classe, la libertà assoluta dell’uomo. Il piano di Piotr Stepanovic, uno dei capi di un’organizzazione anarchica operante (a suo dire) in tutta la Russia, organizzata in piccoli gruppi da cinque, è semplice e geniale: entrare nelle grazie della moglie del governatore, dalle idee moderatamente liberali, e sabotare la sua grande festa di beneficenza organizzata per le governanti indigenti, con letture di intellettuali di spicco e gran ballo finale. La festa è preceduta da uno sciopero di operai, succeduta da un incendio e sabotata da ubriaconi e personaggi di dubbia reputazione che si intrufolano nella festa creando scompiglio. In vista del suo progetto, Piotr Stepanovic ricorre a tutti gli inganni e le prepotenze di cui è capace, esercita una tirannia sui suoi compagni tale da spingerli ad assassinare un loro ex compagno, Sciatov, con l’accusa, assai poco fondata, che egli avrebbe prima o poi denunciato. Piotr Stepanovic è meschino, infido, vile, disposto a rovesciare “l’assoluta libertà in assoluta schiavitù”, come ebbe a dire un suo compagno di lotta. L’aspetto forse più interessante di questo personaggio è che, pur essendo l’artefice di tutto il piano, l’intelligente demiurgo che imprime l’idea nella materia, sembra essere il meno “indemoniato”. La sua spregevole condotta sembra più legata a ragioni personali, soggettive (il suo rapporto con il padre, che reputa indegno e vile, la sua antipatia personale per Sciatov, verso cui nutre vecchi rancori che nulla hanno a che fare con la rivoluzione): Piotr non è uno di quei porci che si getterà nel lago, ma fuggirà con destrezza una volta portato a termine il suo progetto.
I veri posseduti si ammazzeranno: Kirillov e Nikolai Stavroghin. Il primo per affermare la sua assoluta libertà: il suicidio è l’esito nichilistico di una scelta razionale, senza alcuna motivazione estranea alla propria libertà. Così Kirillov motiva il suo suicidio, annunciato come proposito sin dall’inizio del romanzo:

La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura: l’uomo ama la vita perché ama il dolore e la paura. Lo hanno fatto così. La vita viene concessa a prezzo di dolore e paura, e qui sta tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell’uomo che dovrà essere. Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. Quello al quale sarà indifferente vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E l’altro Dio non vi sarà più.

La descrizione dello stato d’animo di Stavroghin nel momento in cui decide di impiccarsi, è decisamente diversa. Il narratore descrive il tormento che trapela dalla lettera scritta da Stavroghin prima di morire:

Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in istato morboso, dettata dal demone che si era impadronito di lui. Pare il dimenarsi di un malato che soffra di un dolore acuto, e si agiti nel letto col desiderio di trovare una positura che gli allevii almeno per un attimo lo spasimo. Colui, naturalmente, ha altro per la testa che la bellezza o la ragionevolezza della posizione. L’idea fondamentale del documento è la terribile, non simulata esigenza del castigo, l’esigenza della croce, del pubblico supplizio. E tuttavia questa esigenza della croce si fa sentire in un uomo che non crede nella croce, e già questo solo costituisce un’ “idea”, come disse un giorno Stepan Trofimovic, del resto, a un altro proposito. Tutto il documento è nello stesso tempo qualcosa di tempestoso e disperato, sebbene scritto, evidentemente, con un altro scopo.

L’idea che si impossessa di entrambi questi porci è quella del nichilismo, della distruzione totale liberatrice, che si declina in due prassi differenti, entrambe autodistruttive: quella suicida di Kirillov, razionale e filosofica, e quella dissoluta di Stavroghin, che con la sua condotta immorale vuole distruggere i dogmi del suo tempo, primo fra tutti il buon senso e la morigeratezza. Entrambi realizzano e allo stesso tempo tradiscono e mortificano il loro nichilismo, e allora la morte, come unico mezzo di liberazione dalla contraddizione.

Le passioni, le ossessioni che tormentano i personaggi di questo romanzo culminano in un grande incendio, nella distruzione totale di sé, degli altri. Poi il nulla, la cui dolce e pesante quiete graverà sulle future generazioni. La tragedia appassionata del cammino dell’Idea distrugge tutto ciò che incontra lungo la via, fino alla sua stessa dissoluzione.

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