lunedì 20 aprile 2015

La fâlsafa medievale e la profezia, "perfezione della natura dell'uomo"

La filosofia araba medievale è caratterizzata da una singolare commistione di elementi neoplatonici, aristotelici e coranici. La filosofia di stampo greco, naturalmente, era vista con sospetto dai più rigidi ortodossi come dai mutakallimûn (teologi), che la identificavano con una bid'a (innovazione biasimevole, capace cioè di far degenerare la condizione spirituale di chi si accostasse a tali contenuti, che sarebbe stato contagiato dalla miscredenza) perché pagana. Sono i califfi della dinastia Abbaside non solo a sollecitare lo studio della filosofia greca (molte opere di Aristotele e altri importanti autori sono state tradotte dal greco in arabo, prima che ne esistessero edizioni in latino) e a fare fiorire la Bayt al-hikma ("casa della sapienza", la celebre accademia delle scienze), ma a guardare con benevolenza alla commistione tra l'autorità coranica e i metodi dimostrativi propri del discorso apodittico
(ossia del ragionamento filosofico). Questo perché la commistione tra islam e fâlsafa avrebbe dimostrato la liceità di quest'ultima sul piano religioso, la sua compatibilità con la religione. È stato questo a rendere possibile il fiorire delle scienze filosofiche nella dâr al-Islâm, cioè nelle vaste terre poste sotto l'egida dell'Emiro dei Credenti (che, ricordiamo, si espandevano all'epoca dall'Andalusia ai confini della Cina). Grazie alla rivalità dei califfi Abbasidi con il mondo bizantino, grazie al loro auspicio di ottenere il primato culturale oltre che militare sulla civiltà rivale, la filosofia ha prosperato a Baghdad dopo che le ultime scuole filosofiche della cristianità erano state chiuse dall'imperatore Giustiniano, per tornare poi da Baghdad arricchita di nuove preziose elaborazioni e di ricchi commentari, i più famosi dei quali dovuti all'andaluso Averroè.
falâsifa ci hanno lasciato preziose testimonianze della fertile commistione tra le verità rivelate e le categorie e i metodi aristotelici. Un esempio molto interessante è rappresentato dall'elaborazione filosofica in merito alla figura del profeta. Innanzitutto, nell'arabo si distingue il nabî (semplice "profeta" con missione di testimonianza) dal rasûl ("inviato", che possiede la profezia transitiva, ossia è incaricato da Dio di portare una Legge agli uomini). La stessa distinzione si opera nella teologia cristiana con le diciture di "causa instrumentale serva" (mero trasmettitore) e "causa instrumentale libera" (autore "inspirato" da Dio).
Un'ampia trattazione è stata riservata dai diversi autori dell'epoca al tema dell'identità del profeta, ossia alla difficile domanda: chi può essere profeta?
Mosè Maimonide, celebre medico, teologo e filosofo ebreo (nella filosofia araba rientrano anche le opere degli autori ebrei, purché scritte in arabo: quest'ultimo, anche nella variante giudeo-araba, era la ligua veicolare privilegiata delle scienze e delle arti), nella sua grande opera La guida dei perplessi si sofferma sulla cruciale domanda e passa in rassegna le possibili risposte.
Secondo i sostenitori della prima opinione, per lo più idolatri ma anche gente comune:

«non ha nessuna importanza che quell'individuo sia sapiente o ignorante, vecchio o giovane; però, pongono come condizione il fatto che egli abbia una certa bontà e correttezza di costumi, perché fino a questo momento la gente non ha mai detto che Dio abbia fatto un profeta di un uomo malvagio, a meno che non l'abbia prima trasformato in un uomo buono.» 

Maimonide conviene che alcuni passi scritturali sembrino suffragare tale opinione, ad esempio il passo: «Io effonderò il Mio spirito sopra ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno» (Gioele 3,1). Ma Maimonide precisa che passi come quello citato si riferiscono in realtà ad un altro tipo (o grado) della profezia, accessibile non a tutti ma ad una rosa piuttosto ampia di individui: la forma profetica inferiore, rappresentata dai sogni veridici. Il sogno, infatti, è nei testi rabbinici: «il frutto acerbo della profezia».
La seconda opinione, sostenuta dai filosofi, afferma che «la profezia è una certa perfezione della natura dell'uomo»: prima di poter accedere al grado della profezia, un individuo deve sottoporsi ad un lungo esercizio che faccia passare all'atto quella perfezione che nella specie è sempre potenziale. Per profetizzare occorre la massima perfezione, anche temperamentale. Inoltre, è impossibile (scrive Maimonide) che un ignorante giunga a prefetizzare o che un uomo si svegli un mattino profeta, quando la sera prima non lo era. Un uomo profetizzerà necessariamente quando in lui le virtù etiche e dianoetiche avranno raggiunto la massima perfezione, accompagnate da una immacolata ed efficiente virtù immaginativa e da una naturale predisposizione. Secondo questa posizione, è impossibile che un uomo dotato di ogni perfezione faccia a meno di profetizzare, come è impossibile che un uomo imperfetto giunga al grado della visione profetica.
La terza opinione, quella sostenuta dalla Legge, è identica alla precedente salvo che per una cosa: l'intervento miracoloso di Dio può inibire anche il più perfetto degli uomini, quindi tra i possibili profeti saranno tali in atto solo quelli che Dio voglia che profetizzino.

È la seconda tra queste opinioni a gettare una luce particolarmente filosofica sul tema della profezia: essa non è (come implica invece la prima tesi, scartata come fallace da Maimonide) un evento straordinario alla stregua di un miracolo, ma una necessità legata alla perfezione dell'individuo e radicata nelle sue capacità intellettive, tra cui la facoltà di ricevere immagini intelligibili e trasmetterle (in forme più semplici, che il volgo possa capire o per lo meno rispettare). Avicenna afferma che il carattere specifico di ogni Legge rivelata è di «parlare a tutto il popolo» in modo facile (cosa che dà luogo ai casi di antropomorfismo, per cui alcuni credenti attribuiscono a Dio gli attributi umani cui le Scritture si riferiscono allegoricamente, occhi, mani, voce, o passioni umane o una collocazione spaziale, nei Cieli o in una qualche porzione dell'universo fisico). Per Al-Fârâbî, il profeta possiede delle virtù imprescindibili: chiarezza e lucidità di intelligenza (che anche i filosofi ottengono con esercizio e ascesi), potere di comandare la materia esterna al suo corpo (ossia la capacità di fare i miracoli) e perfezione della virtù immaginativa (flusso illuminativo dell'Intelletto Agente). Solo lui sa tradurre intelligibili molto difficili in immagini di facile comprensione (questa è la posizione del profetismo farabo-avicenniano).

Non si devono sottoporre le Verità nude e crude a chi non possiede quelle stesse virtù che ne permettono la comprensione ai profeti, a rischio di gettare i credenti nella perplessità e nella miscredenza (a questo tema è dedicata appunto La guida dei perplessi e posizioni del tutto analoghe sono sostenute da Avveroè, ad esempio nel Trattato decisivo). Al riguardo, Buhârî (grande raccoglitore di hadîth, ossia aneddoti e racconti su Maometto) riferisce che 'Alî B. Abû  Tâlib (cugino e genero del Profeta, nonché quarto califfo) avrebbe detto: «Parlate alla gente di quello che essa può comprendere; volete forse che Dio e il Suo Profeta siano accusati di menzogna?». Questa posizione corrisponde alla disciplina dell'arcano in Avicenna.
L'analisi della figura del profeta prende a prestito categorie e concetti aristotelici (in particolare in riferimento all'Intelletto Agente e a quello Potenziale) ma anche due elementi propri all'ermeneutica sacra (che è, per Averroè, prerogativa del filosofo): lo zâhir (il senso manifesto, letterale delle Scritture) e il bâtin (il senso recondito, nascosto, allegorico). Il problema ermeneutico diviene assolutamente centrale nella diatriba tra hashwiyya (letteralisti) e bâtiniyya (interioristi): Averroè cerca l'ideale di un metodo interpretativo scientifico che rispetti il più possibile il senso letterale.
Per finire, tornando all'identikit del profeta, una posizione filosoficamente meno rigorosa rispetto alle considerazioni sull'Intelletto Agente e i contenuti intelligibili, attribuisce a questa figura quattro virtù: la fedeltà (amâna), la veracità (sidq), la sagacia (fatâna) e l'autentica trasmissione del messaggio (tablîg). Infine, nel sufismo (corrente mistica dell'Islam), il profeta è un intermediario semi-divino, un anthropos celeste, splendente di quella «luce muhammadica eterna» da cui proviene tutto il creato.

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