giovedì 12 marzo 2015

"Le 120 giornate di Sodoma" del Marchese de Sade

Questo maestoso ma incompiuto libro di De Sade, la sua ambiziosa enciclopedia delle passioni umane, porta un sottotitolo simpatico: La scuola del libertinaggio. Non molto spaventoso, a dire il vero: ci si potrebbe candidamente aspettare una lettura sfacciata farcita di aneddoti piccanti. Del resto, il nome del Divin marchese è una garanzia.
Eppure, la dimensione erotica di questo libro è piuttosto limitata: incredibile per l'epoca e ancora oggi fonte di scandalo, certo, ma annegata dagli altri contenuti, circoscritta a "perversioni" più o meno innocue e più o meno indecenti, non è l'unica (forse neppure la principale) fonte di soddisfazione per i protagonisti delle 120 giornate. Le pagine dedicate alle dramatis personae si incentrano sulle qualità erotiche (dimensioni degli attributi maschili, rotondità femminili, situazione igienica e olfattiva, condizioni della pelle, dei seni, degli orifizi, stato di verginità o meno, capacità erettile) solo nei personaggi non protagonisti, veri e propri oggetti sessuali: le intercambiabili mogli, i gaudenti o fottitori (secondo la traduzione), le giovinette e i giovinetti descritti come putti virginei la cui violenta deflorazione riserverà particolari piaceri. Anche sul Duca, sul Vescovo, sul Presidente Curval e su Durcet il lettore riceve informazioni riservate: caratteristiche fisiche, preferenze sessuali, vizi e vizietti. Eppure del Duca, innanzitutto, leggiamo:

«Di natura infido, insensibile, autoritario, rude egoista, tanto prodigo nel perseguire il piacere, altrettanto avaro quando vi fosse un motivo per spendere utilmente, bugiardo goloso, ubriacone, vigliacco, sodomita, appassionato dell'incesto, dedito all'assassinio, al furto, piromane, no, non una sola virtù compensava tale schiera di vizi. Anzi, cosa sto dicendo! non solo non aveva mai nemmeno sognato una sola virtù, ma le guardava tutte con orrore, e spesso lo si sentiva dire che per essere veramente felice in questo mondo, un uomo non dovrebbe semplicemente gettarsi in ogni vizio, ma mai dovrebbe consentirsi un atto virtuoso, non si trattava di fare sempre il male, ma anche, e soprattutto, di non fare mai il bene.»


Ritengo dimostrato che la perversità intrinseca dei quattro protagonisti solo di sghimbescio, come di conseguenza, investe l'area sessuale: non si tratta propriamente di libertini, di gente frivola e godereccia, ma di autentici criminali. Di fronte alla mole dei loro reati, che spaziano tra frodi e violenze di ogni tipo, le turpitudini sessuali appaiono ben poca cosa, soprattutto quelle praticate con partner consenzienti. Turpitudini sessuali da definirsi: le "devianze" sessuali dei quattro, difatti, non si limitano alla sodomia attiva o passiva, che pure resta l'attività maggiormente praticata nell'isolato castello di Durcet, location delle 120 giornate; si legge di stupri pressoché quotidiani, spesso di gruppo, anche ai danni di personaggi poco più che dodicenni; molti rapporti si consumano nella sporcizia o con l'esercizio della forza o della minaccia. La lettura può disturbare, ma è davvero nulla rispetto alle mutilazioni e uccisioni di cui si leggerà continuando a scorrere il calendario (incompiuto) delle giornate.
Abbiamo dunque una sorta di doppio binario: da un lato quelle che definirei perversioni "radicali", dall'altro, quelle identificate come tali dalla loro storicità, dai costumi, dall'ipocrisia sociale. Una coppia di esempi può essere la seguente: perverso è 
il Duca quando «vuole che il suo domestico deflori [una] fanciulla al massimo dodicenne, davanti ai suoi occhi» e quando «costringe un fratello ad avere rapporti con la propria sorella in sua presenza, poi possiede a sua volta la ragazza» (abusi piuttosto patenti); ma perverso è anche il Vescovo a violare il voto di castità (la sua "perversione" non sarebbe tale se il consesso civile del tuo tempo e della sua religione non fosse d'accordo su questo). È evidente la doppia provocazione di De Sade: da un lato, schiaffo al perbenismo sociale che etichetta come devianza o perversione qualunque forma di piacere che non sia il rapporto eterosessuale interno al vincolo matrimoniale; dall'altro, messa in discussione radicale della presunta bontà naturale dell'uomo (che pressoché negli stessi anni sosteneva Rousseau), della legittimità/necessità dell'esercizio di una qualche presunta moralità, del legame tra quest'ultima e la teologia o religiosità. De Sade mostra la fallibilità e l'ipocrisia delle istituzioni umane, soprattutto di quelle che si pretendono fondate divinamente: di una sua figlia naturale concepita con la moglie del fratello, leggiamo che «il Vescovo l'aveva lasciata nella più profonda ignoranza; a stento sapeva leggere o scrivere, e non aveva assolutamente idea dell'esistenza della religione». Parallelamente, De Sade prescinde dalle costruzioni umane e contesta alla radice la possibilità che virtù, morale e giustizia possano avere un fondamento naturale, negando contemporaneamente che possano averne uno divino. Il Duca fa apologia dei propri vizi, attribuendo alla Natura l'insorgere di determinati impulsi violenti in lui. Se neppure Dio può pronunciarsi in materia di moralità dall'alto della sua inesistenza, allora l'unico ostacolo all'esercizio dell'umana crudeltà deve essere di natura positiva, di fattura umana, storicamente determinato:

«"Così nulla, tranne la legge, si mette sulla mia strada, ma io sfido la legge, il mio oro e il mio prestigio mi tengono ben al di là della portata di quei volgari strumenti di repressione che potrebbero essere impiegati solo contro la gente comune."
Se uno avesse sollevato l'obiezione che, tuttavia, tutti gli uomini posseggono l'idea del giusto e dell'ingiusto, il che può essere solo prodotto della Natura, dal momento che queste nozioni si trovano in ogni popolo ed anche tra gli incivili, il Duca replicava affermativamente, dicendo che sì, quelle idee sono sempre state soltanto relative, che il più forte ha sempre considerato oltremondo giusto ciò che il più debole ha considerato come palesemente ingiusto, e che non occorre null'altro che un mero rovesciamento delle loro posizioni, perché ciascuno sia capace di cambiare anche il proprio modo di pensare.»

La tematica sociale impregna il discorso desadiano ed esplode in passi come questo: se il limite alla crudeltà umana è determinato dalle forme del potere (ricchezza, legge, forza, capacità di corrompere, minacciare, comprare favori), allora diventa prerogativa del potente. Non è un caso che i quattro protagonisti delle giornate siano papaveri alti della nobiltà e del clero: le loro voglie sofisticate e abbondanti possono essere saziate solo con un grande dispendio di denaro, ma soprattutto occorre un grande potere per poter uscire impuniti dai peggiori delitti con cui essi stessi accompagnano festini e innocue baldorie. Già nelle prime pagine si legge di come i quattro, al di fuori dell'universo rigidamente regolamentato delle 120 giornate, si dilettino nell'esercitare ogni forma di violenza su esponenti delle classi meno abbienti, che nulla possono per difendersi dall'arroganza dei potenti. Abbiamo umili lavoratori 
incriminati per nulla e condannati a morte per colpe mai commesse (il Presidente, prima di ritirarsi a vita privata, era un magistrato), abbiamo donne povere minacciate e ricattate, costrette a cedere le proprie figlie per poi essere avvelenate e vedersi (con un ideale sguardo dall'aldilà) protagoniste di casi insabbiati e mai vendicati. Non è un caso neppure che i sedici fanciulli maschi e femmine rapiti dalle loro case per allietare l'universo antirealistico delle 120 giornate (un microcosmo isolato, regolato da leggi proprie) siano rampolli della classe alta, giovani esponenti della nobiltà, piccoli ereditieri: poter stuprare e massacrare un proprio giovane pari, il figlio prediletto di un uomo potente e ricchissimo, è un piacere raro per allestire il quale occorrono mesi di preparativi, dispendio di denaro, sguinzagliamento di
agenti e sicari; invece, esercitare la stessa violenza su un figlio di contadino è piacere d'ogni giorno e come tale può consumarsi a Parigi o in qualunque luogo, senza allestimenti e regolamenti, seguendo la voglia di un secondo.
La portata politica e sociale di De Sade dà forma e colore a tutto il resto. È allora tutt'altro che marginale l'ambientazione della storia, che pure ruba poche righe all'inizio del racconto: le 120 giornate si svolgono alla fine del regno di Luigi XIV, che con le sue numerose guerre aveva affamato i ceti produttivi e arricchito gli squallidi speculatori cui il sangue dei propri compatrioti non faceva alcuna impressione, se non quella di un succulento investimento. Ambientazione precisa dunque, e allo stesso tempo storia vecchia e nuova, destinata a ripetersi ancora e ancora, finché l'uomo sarà una bestia. È tutta una poesia, allora, che Pasolini abbia ambientato la stessa storia nella neonata Repubblica di Salò, nel suo film agghiacciante e meraviglioso, e che abbia fatto dei quattro protagonisti dei potenti fascisti arricchiti dalla guerra, di uno dei giovani ammazzati un ribelle coraggioso che aspetta i proiettili con il pugno chiuso: licenza artistica, ma non troppo.


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