lunedì 24 novembre 2014

"A un jour" di Simone Weil

Il poeta Jean Tortel, conosciuto durante la collaborazione ai Cahiers du Sud nel 1940, dopo l'occupazione tedeca, ha scritto di Simone Weil: "Credo che, prima di tutto, desiderasse essere poeta. Sono certo che avrebbe sacrificato la sua opera per le poche poesie che ha scritto".
Nonostante questa vocazione (Weil avrebbe detto dharma, secondo la terminologia acquisita dall'indù che amava studiare negli antichi testi sanscriti), della "vergine rossa" possediamo poche produzioni poetiche. Negli ultimi anni della sua vita apprezzava gli gnostici e i metafisici, Theophile e George Herbert. Giudicava la di lui poesia, Love, la più bella mai scritta. In continuità a questo clima di trascendenza e misticismo che amava ricreare nei suoi studi (ormai morta e sepolta la breve stagione rivoluzionaria, durante la quale disegnava falci e martelli ai bordi delle pagine e stringeva calorosamente la mano a chi si dicesse ateo), compose in due diverse stesure quello che riteneva un piccolo capolavoro: il poemetto A un jour (A un giorno nelle traduzioni italiane).
Il lavoro di cui era stata precedentemente più fiera era il Prométhée, altro componimento che in seguito avrebbe giudicato invece di "gran lunga inferiore" ad A un jour. Lo aveva inviato a Paul Valéry, il quale le aveva mandato una lettera di risposta piena di elogi.
Segue una prima stesura del secondo poemetto, anch'esso spedito a Valéry nel 1938, senza questa volta ottenere alcun riscontro. A un jour, così, rimase a lungo nel mucchio di manoscritti che affollava la camera di Simone Weil al numero 3 di via Auguste Comte.
Weil non aveva intenzione di abbandonare Parigi poco prima che essa venisse raggiunta dall'avanzata tedesca: aveva ferma intenzione di restare per due ragioni. La prima, era quella di cui andava vantandosi continuamente con chiunque le prestasse attenzione: condividere la sorte dei più sventurati (anche se, per conseguire quello che Simone Pétrement giudica un atto della più pura generosità e della più profonda negazione di sè, Weil incorreva spesso nell'inconveniente di imporre agli altri le proprie insistenti pretese, a volte veri e propri capricci, e con le complicazioni che ne conseguivano) e partecipare direttamente alla guerra, visto che un incubo è tale per lo più quando è solo immaginato e ben meno spaventoso quando è vissuto.
Nonostante questi fieri e ostinati propositi, il 13 giugno del 1940 Weil e i suoi genitori escono di casa, vengono a sapere che Parigi è appena stata dichiarata città aperta e che da essa sta per partire l'ultimo treno; decidono allora su due piedi di partire, senza bagagli né molto denaro. Scendono alla prossima fermata di Nevers e da lì vengono trasportati in auto fino a Vichy. L'indomani Parigi viene occupata.
Lontana da casa e dai suoi manoscritti, Weil riscrive A un jour a memoria, ottenendo un componimento che giudica ancora migliore dell'originale. Ne fa cinque o sei copie e le invia per lettera ad amici, conoscenti e ad un'allieva con l'incarico di farla pubblicare con qualunque mezzo su qualunque rivista di rilievo, anche in forma anonima (visto il clima antisemita che ormai domina l'Europa): sa infatti che l'opera portata a termine è del tutto svincolata dal suo autore e poi non ha a cuore la fama o la gloria di essere l'autrice di quel che giudica un ottimo poemetto. Quel che le sta a cuore è semplicemente che sia letto con urgenza, perché è di tale importanza e bellezza che sarebbe un peccato privarne il mondo.
Il poemetto, lungo alcune pagine, snocciola quelle che erano le principali convinzioni religiose e metafisiche che Simone Weil nutriva all'epoca, nei suoi ultimi anni di vita, dopo aver stretto amicizia con padre Perrin, dopo essersi appassionata in modo (direi) morboso ai canti gregoriani, dopo aver deciso di vivere asceticamente (per esempio dormendo a terra oppure chiedendo ad un amico, durante una vacanza, di ficcarle spilli sotto le unghie) e dopo essere diventata anoressica (legittimando la cosa con l'affermazione che chiunque mangiasse, in tempo di guerra, praticamente privava di quel cibo tutti gli altri esseri umani nelle medesime condizioni).
Durante l'elaborazione di piani come paracadutare le infermiere in prima linea per soccorrere i moribondi anche a costo di morire al loro posto e nel tentativo di sfuggire alla persecuzione antiebraica dichiarando di essere, sì, in effetti, di origine ebraica, ma di non avere nulla a che fare con quel popolo alla cui tradizione di dichiarava totalmente estranea, Weil trova il tempo per deliziarci con questo poemetto misticheggiante.

«Perchè ferire con la tua aurora
gli occhi dei vinti, giorno morto-nato?
Son stanchi di dover vedere ancora
rilucere un sole condannato. [...]
Mille volte mille anime deserte
salutano il giorno già perduto.
Mille e mille giornate inerti
sono un vile balocco venduto.»

Come evidente dal titolo, Weil si rivolge a un giorno, chiedendosi a cosa valga che egli nasca e passi anche per i vinti. Ma i vinti non sono solo coloro i quali sono stati piegati dalla forza: come scrive nell'Iliade o poema della forza, la violenza è qualcosa che semplicemente trasforma tutti in vinti. La forza contamina chi la subisce come chi la esercita (è il caso di Achille, che sottomette Ettore ma poi è a sua volta ucciso), di modo che alla fine risulti vincitrice solo la stessa forza, solo la stessa ragione brutale delle armi. Le "mille anime deserte" non sono, dunque, i soldati del fronte franco-russo o le vittime innocenti e disperate del conflitto, ma anche gli stessi occupanti, gli stessi giovani privi di valori autentici indottrinati dalla propaganda nazi-fascista ed esaltati fino a voler uccidere. Un giorno di guerra è "morto-nato" per tutti, per chi sopravviverà uccidendo e per chi resterà ucciso.

«Increspata nell'ombra, lor mano crede
di trattenere i secoli di sventura.
Invano l'asse dei cieli è giusto.
Giorno fragile e sacro, giorno augusto,
giorno, per loro non sei dischiuso.»

Il termine "sventura" utilizzato nelle traduzioni italiane è probabilmente il migliore disponibile, eppure le altre lingue europee non posseggono un perfetto equivalente del termine francese -malheure: è l'infelicità ma è anche l'essere fatalmente colpiti da essa, l'essere vittima di un destino avverso e crudele, appunto da una sventura. Ma la maggior parte degli uomini è colpita, oltre che dall'impietoso clima politico, anche da una ulteriore forma di sventura: quella della mancata comprensione della dimensione mistica, per così dire. Essi, secondo Weil, stoltamente si sforzano di arginare i mali, credendosi artefici del proprio destino o reputandosi in grado di contrastare i casi della vita, quel che la tradizione popolare apostrofa con "se Dio vuole" o "Dio ha voluto così". Infatti, Simone Weil ha qui imboccato una via propriamente religiosa. L'"asse dei cieli", volgarmente "il volere di Dio", dice Weil, è giusto: sono i profani che non se ne rendono conto, che non riescono a cogliere questa giustizia, e così se ne lamentano e cercano anche di contrastarla. Il giorno benedetto (che è, per la giustizia ultraterrena, ogni giorno), per loro non è ancora sorto e non può sorgere.

«Giorno senza forza, la pietra
tu non potrai attraversarla.
Un muro ti sottrae a chi ti ama.»

Decorazione di Simone Weil ai suoi Cahiers. Distinguiamo
tra l'altro citazioni dal greco antico, dal sancrito, dal
latino, citazioni da Platone, dal Vangelo di Giovanni, il
nome della dea egizia della verità e della giustizia, Maat.
Questi tre versi richiamano un tema affine a quello della grazia, o meglio dello stato di grazia in cui si trova chi abbia compreso e accettato la rivelazione come Weil: si tratta di riconoscere, per la prima volta con tale intensità, la bellezza dell'universo. Ad Antonio, prigioniero in un campo a cui Simone Weil scrive lettere e invia pacchi, fa osservare la stessa cosa: pur imprigionato, pur privato della libertà e degli affetti, pur soggetto e privazioni, lui e qualunque essere umano dovrebbero poter confermare la straordinaria bellezza della vita e dell'universo tutto anche solo per il poter contemplare il cielo. Solo una cosa può impedire all'uomo di guardare il giorno o la notte stellata ed è appunto la prigione: ma, dice Weil, questo ostacolo è praticamente ininfluente, considerata la percentuale di esseri umani privi anche solo di una piccola finestra sul blu, rispetto a tutto il resto dell'umanità. Il cielo, dice, non manca sopra la testa di nessuno ed è bello ovunque nello stesso modo: rappresenta la semplice gioia di essere vivi, la capacità di cogliere la grandezza e la pienezza della vita anche nella sventura, anche nella solitudine, attraverso le cose piccole e gratuite.
Riferendosi a chi abbia raggiunto questo stato di grazia, a questo cuore illuminato dalla buona novella, Weil scrive:

«E il lungo giorno sia per lui il patto
che senza fine congiunge l'anima esatta
alla bilancia nei cieli innata.
O lungo giorno, te che egli avido berrà,
passa e colmalo d'un vuoto
che lo renda agli dèi pari.»

L'immagine della bilancia è cara a Weil e la vediamo tornare nelle riflessioni degli ultimi anni: l'asse verticale con i due bracci laterali non è altro che la croce. Il sacrificio di Cristo e la giustizia (terrena e ultraterrena, che è lo stesso) si sovrappongono nell'immagine della croce-bilancia, nel simbolo dell'equilibrio, e paradossalmente proprio l'equilibrio, la continenza, la rinuncia alla hybris, il ritrarsi da sé rendono l'uomo simile e vicino a Dio.

Per chi volesse approfondire, suggeriamo:
  • "La vita di Simone Weil", Simone Pétrement, Adelphi, 2010 (nonostante il tono fastidiosamente agiografico, si tratta di una biografia molto esauriente e arricchita da una vasta aneddotica).
  • "Piccola cara... Lettere alle allieve", Simone Weil, Marietti, 1998 (una raccolta postuma delle lettere a cura di M. C. Sala; contiene la poesia A un giorno).
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