domenica 28 luglio 2013

"La figlia del capitano" di Aleksandr Sergeevič Puškin

Nel 1833, Puškin dà alle stampe una delle sue opere più riuscite e celebri, l'"Evgenij Onegin". Fatto questo, si sposta negli Urali per dedicarsi a ricerche accurate: ha infatti in cantiere due opere che compongono quasi
un distico e lanciano l'una uno sguardo frontale e l'altra uno sguardo in tralice all'insurrezione cosacca guidata da Emel'jan Ivanovič Pugačëv e terminata con l'uccisione del ribelle nel 1775.
"La storia di Pugačëv" e "La figlia del capitano" si integrano a vicenda: il secondo contiene continui rimandi impliciti al primo, molto più didascalico ed informativo. "La figlia del capitano" non aspira ad avere, né di fatto ha, un peculiare valore storiografico: in esso, la Storia è un personaggio come gli altri, solo più potente e impersonale, complesso e corale, capace di travolgere e dirigere i destini individuali dei protagonisti.
Il giovanissimo Pëtr Grinëv, raggiunta l'età per l'ingresso nel reggimento Semënovškij cui è destinato dalla nascita (dati i suoi nobili natali), spera di essere inviato a Pietroburgo. Suo padre ritiene però che il ragazzo sia troppo svagato e bighellone, carente di disciplina e rigore, e decide di educarlo e mitigare le sue pecche arruolandolo invece in un secondo reggimento di stanza presso la fortezza Belogorskaja, un postaccio sperduto nelle vastità della steppa russa. A dispetto delle sue aspettative e nonostante i suoi capricci, Pëtr si ritrova spedito come un pacco attraverso banchi di nebbia e bufere di neve, in compagnia del fedele e un po' opprimente servitore Savel'ič. Solo grazie all'incontro con un viandante che conosce il posto, i due riescono a uscire indenni da una tormenta e ad approdare ad una taverna. Il viaggiatore solitario è intraprendente e sfacciato, molto accattivante, e Pëtr decide di sdebitarsi per l'aiuto ricevuto regalando allo sconosciuto il proprio pellicciotto di lepre in difesa delle temperature molto rigide. Savel'ič cerca di dissuadere il suo batjuška e infine commenta acidamente:

«Un pellicciotto di lepre quasi nuovo! L'avesse poi dato a chiunque altro, ma a un ubriacone impenitente!»

Pëtr e il suo servitore proseguono poi per la loro strada, raggiungendo la fortezza Belogorskaja che dista quaranta verste da Orenburg (che sarà a sua volta scenario nelle ultime fasi della storia). Una volta arrivato, il ragazzo conosce il capitano e sua figlia Mar'ja Ivanovna, che dapprima non lo colpisce affatto; inoltre, un altro giovane di cui Pëtr diventa amico, Švabrin, gli descrive «Maša, la figlia del Capitano, come una perfetta stupidella». Solo in seguito il ragazzo smette di rimpiangere i suoi progetti sfumati sulla movida di Pietroburgo e si innamora della fortezza Belogorskaja, che gli diventa familiare, di pari passo col suo innamorarsi di Maša. Si tratta di un innamoramento cristallino e ricambiato, quasi da fiaba, che Pëtr riassume con una lirica dolciastra e vagamente dolce-stilnovistica, che Švabrin etichetta lapidariamente come «brutta», scatenando un putiferio che si conclude con un duello tra i due amici. La poesiola di Pëtr non è che il pretesto che fa emergere ragioni più profonde di discordia: Švabrin infatti è uno spasimante respinto da Maša e di lei ancora invaghito.
Mentre i ragazzi si dedicano a queste amene scaramucce, sullo sfondo si dipana l'insurrezione dei cosacchi e gli scontri tra ribelli ed esercito zarista insanguinano la steppa e gli insediamenti umani. Quando Pugačëv attacca e prende la fortezza Belogorskaja, il giovane Pëtr combatte con valore, viene sconfitto ed è pronto ad essere giustiziato con i suoi commilitoni. Solo allora, nello stupore generale, lui e Savel'ič riconoscono nel pretendente al trono, il ribelle e sanguinario Pugačëv, lo sfacciato viandante che li trasse dalla bufera. Pëtr viene risparmiato in segno di riconoscenza e amicizia, ma di fronte alla proposta di passare dalla parte dei ribelli, il giovane si dichiara pronto a essere ucciso ma determinato a mantenere il suo impegno in difesa della zarina, nonostante l'amicizia che lo lega al capo dei Cosacchi.
Con l'avanzare dei capitoli, la storia sentimentale di Pëtr prende una piega e un carattere sempre più adulti, sempre più profondamente intrecciati alle vicende storiche e ai giochi bellici e di potere. Il metro di azioni e atteggiamenti diventa sempre più marcatamente quello dell'onore, su cui peraltro Puškin focalizza l'attenzione fin dall'esergo che cita il proverbio: «Abbi riguardo dell'onore fin da giovane».

"La figlia del capitano", come lo stesso Puškin, occupa una posizione ambigua o almeno difficile da localizzare esattamente nella forbice rivoluzione-conservatorismo. A prima vista, la storia di Pëtr sembra un elogio dello status quo, un'esaltazione della triade tradizionale di Dio-Patria-Re. La morale della storia si raggrumerebbe dunque nell'uccisione di Pugačëv e del ruolo salvifico della zarina Caterina che, in chiusura del romanzo, aiuta i protagonisti a conseguire il lieto fine nonostante mille avversità. Eppure, non si può etichettare Puškin come un reazionario se non al costo di un appiattimento della sua poetica al limite del falso storico.
Fin dalla giovane età, già nel 1819, Puškin entrò infatti a far parte della Lampada Verde, una società progressista il cui fine dichiarato era quello di diffondere le idee illuministe. Proprio la partecipazione alle attività di questa società guadagnò a Puškin le antipatie dello zar Alessandro, che decise di spedirlo a redimersi in Siberia. Anche il nuovo zar, Nicola I, preferì controllare l'attività del poeta, permettendogli di soggiornare a Mosca ma imponendosi personalmente come suo censore.
Le tendenze rivoluzionarie di Puškin, innegabili benché forse un po' fiacche, non tentarono naturalmente solo lo sbocco artistico (che pure fu preponderante): il poeta simpatizzò con i decabristi, il cui moto fu un preludio molto moderato, appena progressista, alla ben più radicale e ancora lontana Rivoluzione d'Ottobre.
Puškin simpatizzava con i ribelli, fraternizzava con illuministi e decabristi, presentava Pugačëv non come un eroe ma neppure come un usurpatore, ce ne restituiva (anche ne "La figlia del capitano") un'immagine molto umana ed evidentemente simpatica. Eppure, Aleksandr Sergeevič Puškin è lo stesso poeta che nel "Boris Godunov" del 1825 ci mostra il potere come un blocco monolitico che non ammette incrinature né opposizione dialettica, come una forza pervasiva e irresistibile, e a sigillare questa presa di posizione è la scena finale dell'opera che ritrae un popolo ammutolito e annichilito.
Dov'è l'equilibrio? Dove collocare Puškin, in un placido conservatorismo, in un'ipocrita messinscena di progressismo, in un illuminismo impotente e poco convinto?
Forse è giusta, sicuramente è acuta, la soluzione tentata da Mauro Martini nella prefazione a "La figlia del capitano" nell'edizione della Newton Compton: sia Pugačëv che Caterina ricoprono il ruolo di aiutanti dei protagonisti; sono entrambi simpatici e amichevoli, utili e benigni, ma solo fintanto che si presentano al lettore
e agli altri personaggi sotto mentite spoglie, liberi dai loro incarichi istituzionali. Allora, forse, è questo il senso che Puškin voleva dare attraverso la sua opera: ogni potere, tanto quelli costituiti ed ereditari quanto quelli sorti dal basso attraverso moti e rivolte, è destinato ad una deriva istituzionale che finirà con l'alterarne la natura eventualmente benigna. Il potere nelle mani del popolo finirà per distorcersi fino ad assomigliare al potere precedente che si cercava di rovesciare.
Forse si spiega così l'atteggiamento di Puškin, e il suo ambiguo moderatismo, il suo spiccato non-sovvertivismo vanno letti in una chiave di disincanto e disillusione, per cui l'unico spazio vivibile resta quello degli "interstizi dei poteri contrapposti", e al poeta non resta che astrarsi dalla lotta politica per coltivare gli ideali al sicuro dello studio, in un disinteressato e profondamente amareggiato disimpegno.

De "La figlia del capitano" sono state realizzate numerose trasposizioni cinematografiche. Segnaliamo quella del 1947, diretta da Mario Camerini, che tra i suoi sceneggiatori annovera niente meno che il grande Mario Monicelli.

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