martedì 18 giugno 2013

"Venuto al mondo" di Margaret Mazzantini

Venuto al mondo è la storia di una nascita, di una vita figlia della violenza, della morte, della guerra, che porta dentro di sé, nella sua purezza, una sorta di redenzione. Una salvezza che si dà attraverso il semplice affermarsi della vita sulla morte.


Film del 2012, diretto da Sergio Castellitto
É una storia molto intensa, commovente: la protagonista, Gemma, decide di tornare a Sarajevo dopo 16 anni, e decide di portare suo figlio Pietro, nella città in cui è nato. Sulla carta d'identità di Pietro c'è scritto che è nato a Sarajevo, ma lui non ha mai capito perché. I ricordi si intrecciano con la narrazione del presente: Gemma fa conoscere a Pietro un suo vecchio amico sarajevita, Gojko, conosciuto nel 1984, anno del primo viaggio di Gemma a Sarajevo. In quel viaggio conosce anche Diego, futuro marito di Gemma e padre di Pietro. L'amore tra Diego e Gemma, all'inizio idilliaco, è travagliato da una serie di difficoltà: la prima fra tutte è la difficoltà di Gemma ad avere bambini. La prima parte del romanzo si concentra sulla narrazione del desiderio spasmodico, e dei tentativi disperati fatti dalla coppia per cercare di avere un bambino: dopo diversi tentativi falliti, giungono a Sarajevo, mentre la guerra del 1992 sta per scoppiare. Qui incontrano, tramite il loro amico Gojko, una giovane ragazza, Aska, che decide di "prestare" il suo utero, accettando di concepire un figlio con Diego. Le cose non andranno come previsto, nascerà un amore tra Diego e Aska, scoppierà la guerra, Gemma tornerà con Pietro appena nato...  Alla fine del romanzo, non solo Pietro tornerà in Italia con una nuova consapevolezza riguardo alla sua nascita, ma soprattutto Gemma andrà via da Sarajevo sconvolta: scoprirà l'orrore, la violenza, l'umiliazione da cui suo figlio è venuto al mondo.
Man mano che il racconto prosegue, la storia diventa sempre più coinvolgente e drammatica: l'incontro tra Gemma e Diego, i tentativi sempre più disperati di avere un bambino, la guerra, l'amore tra Diego e Aska, la tossicodipendenza di Diego, la sua morte, la scoperta della verità sulla nascita di Pietro.
Tutto questo unito ad uno stile elegante, raffinato, a volte poetico. Bellissima, ad esempio, è la descrizione del corpo di Gemma, il corpo di una donna che non può avere figli: 
«Il corpo come un pianeta che vaga nel cosmo, che sprofonda da un vuoto all'altro. Il corpo come un secchio abbandonato che raccoglie acqua piovana, scolo di tetti, sporco di ruggine. Il corpo come un vuoto attraversato da un razzo, uno di quegli shuttle, di quegli sputnik, che entra dalla vagina ed esce dalla testa. Lasciando una coda di fuoco, come la Fiamma Eterna. Il corpo come un insieme di punti che tirano, cellule che combattono l'una contro l'altra
 Nonostante la drammaticità della storia, e la bellezza dello stile della scrittrice, questo romanzo ha suscitato in me non poche perplessità: innanzitutto, il desiderio di Gemma di avere un figlio, sempre più intenso, tormentato, che sfocia nell'isteria. Gemma definisce Aska, la ragazza pagata per concepire un figlio con Diego, la "pecora": Aska rappresenta per Gemma un mezzo per ottenere ciò che desidera, un corpo vuoto, pronto ad essere colmato di tutti i sogni e di tutte le ambizioni della protagonista. Diego e Gemma finiscono col diventare due piccoli borghesi, benestanti e annoiati, colmi di cose senza importanza, che credono di poter sfuggire alla noia e all'insensatezza della propria vita concependo un figlio, o andando alla ricerca di realtà terribili, come la guerra, ma più autentiche: finiscono a Sarajevo, il luogo esotico in cui si erano conosciuti, portando con sè il loro insulso dramma, che resta intatto persino nell'orrore della guerra. Nemmeno la morte, la violenza, distolgono l'attenzione di Gemma dal suo sogno, che se nella "Roma bene" è una tragedia, nella Sarajevo della fame e della guerra, assume un aspetto banale. E anche il tormento interiore di Diego, il suo sentirsi fuori luogo e disadattato nel mondo borghese, ipocrita e superficiale, diventa insulso sullo sfondo della guerra. Anche a Sarajevo Diego sarà un disadattato, perché quella guerra non lo riguarda, non è la sua tragedia: sembra che la guerra sia l'ultimo tentativo di toccare l'abisso per sentire qualcosa di autentico, ma anche in questo caso la sua anima sarà impermeabile, e la tossicodipendenza sarà la sua tragedia.
A mio parere, il problema di questo romanzo, come del resto di molti romanzi italiani degli ultimi anni, è la prospettiva: per quanto si cerchi di ampliare la visione d'insieme, il tutto è sempre ricondotto alle nostre quattro mura di casa, ai problemi familiari, ai problemi di coppia, ai problemi con i proprio figli, astratti, sospesi dalla situazione materiale in cui si radicano. La famiglia è una monade che non comunica con la società, un ambiente claustrofobico, asfissiante: persino la guerra finisce per diventare un semplice sfondo, ed
è sempre il piccolo mondo borghese ad essere il protagonista. Una scrittura che, pur tentando di aprire all'altro, alla tragedia dell'altro, proietta nell'altro se stessa, senza capirlo, senza una vera comunicazione: e anche alla fine del romanzo, quando Gemma scoprirà l'orrore da cui è nato suo figlio, lei ricondurrà la grande tragedia al suo piccolo dramma, universalizzato, reso assoluto.

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